Il sei, sette e otto settembre, per tre giorni e per tre notti tutta la città di Napoli, sia i rioni poveri che quelli ricchi, è risvegliata e messa a soqquadro per la tradizionale festa di Piedigrotta che ha il suo epicentro a Mergellina. Si tramanda che nel 1734, durante la guerra contro gli Austriaci, Carlo abbia promesso alla Madonna di Piedigrotta una bellissima festa in cambio della vittoria. Il re vinse e mantenne il voto che fu osservato ogni anno per secoli fino ad oggi.
Sin dal secolo XIII nel luogo dove fu costruita la chiesa dedicata alla Madonna esisteva una cappella che col passare dei secoli fu man mano ingrandita e trasformata sino all’ultimo restauro effettuato per volere di Ferdinando IV di Borbone.
La festa, nata per rendere omaggio alla Madonna, la cui effige si venera nel santuario, aveva inizio l’ultima domenica di agosto con il passaggio della carrozza del re preceduta da quattro araldi a cavallo. Dalla carrozza due ragazzi vestiti con abiti regali salutavano uomini e donne accalcati lungo le vie della città che per l’occasione dovevano indossare abiti nuovi. La sera precedente il sei settembre, il primo dei giorni dedicati alla Madonna, i negozi degli alimentari, i ristoranti, le taverne restavano aperte perché per tutta la notte si mangiava e si beveva. I pellegrini che venivano da fuori città avevano la possibilità di dormire nella Villa lasciata appositamente a loro disposizione. Al mattino il suono delle campane svegliava tutto il popolo chiamandolo al pellegrinaggio verso la chiesa di Posillipo, pellegrinaggio che durava ininterrottamente fino al pomeriggio, allorché si assisteva allo splendido spettacolo delle truppe che passavano in parata. Dopo essere passati davanti al re ed al popolo, i soldati si disponevano ordinatamente in doppia fila ai fianchi della strada che va dal palazzo reale fino a Santa Maria di Piedigrotta in modo che la famiglia reale potesse giungere agevolmente in chiesa fra la folla. La parata iniziava con i cavalieri e l’elegan¬tissima carrozza da gala vuota, tirata da sei cavalli e seguita dai camerieri in livrea dorata fra i colpi di cannone delle navi attraccate al porto e quelli dei cinque castelli. In ultimo, accompagnata dagli alfieri, passava la carrozza con il re e la regina e quelle degli altri nobili ed appartenenti alla famiglia reale. Seguivano altri due giorni di balli, di feste, di sfilate di carri allegorici, di canti.
La festa era principalmente per il popolo un’occasione per fare una sana baldoria, cantare, riempire l’aria del frastuono di quei rudimentali strumenti popolari che sono il putipù, il triccabballacche e lo scetavajasse.
Il primo è uno strumento piuttosto strano e caratteristico, consiste in una pentola, meglio in una caccavella in terracotta ricoperta da una pelle di tamburo, nel cui centro è fissata un’assicella di legno: facendo opportunamente scorrere dall’alto verso il basso lungo la stessa il palmo racchiuso della mano, quasi allisciandola, si produce il quel caratteristico suono profondo, ideale basso per la tarantella.
Il triccaballacche è costituito da tre martelletti in legno di cui quello centrale è fisso, mentre i due laterali -mobili- vengono energicamente sospinti dal suonatore contro il primo, dando così luogo ai tipici, sonorissimi cozzi che, adeguamento ritmati, costituiscono la «voce» del triccaballacche. Al centro dei martelletti, spesso arricchiti da nastri multicolori vengono infissi dei piccoli cerchi di latta che tintinnano ad ogni battuta: sono gli scìsciole o cìcere, caratteristici sonagli del tamburello napoletano.
Lo scetavajasse è uno strumento che costituito da due assi di legno di cui una scalanata a tacche, che funge da cassa armonica ed una liscia simulante l’archetto la quale sfregata contro la prima, produce quel caratteristico suono cacofonico e mitragliante.
Lo spettacolo interessava tutti, poiché, oltre ai carri, si erano e vi sono tutt’ora i fuochi a mare, con l’incendio di Castel dell’Ovo e spettacoli folkloristici di canto e musica. E poi allegre luminarie, bancarelle, giochi, preghiere, che ravvivano ogni festa popolare.
Questa festa così caratteristica, ha oggi perso gran parte della sua naturale freschezza e sincerità ma resta nel cuore dei molti Napoletani che non vogliono rinunciare alle loro tradizioni.
Il miracolo del sangue
Il miracolo del sangue
Il primo racconto del miracolo della liquefazione del sangue risale, però, al 17