Cappella del Tesoro di San Gennaro

Come la Certosa di San Martino, la Cappella del Tesoro di San Gennaro è un autentico gioiello d’arte che ha visto sfilare dal Seicento in poi re, principi, generali e gentiluomo, ognuno dei quali offriva un ricco dono al santo per ringraziarsene i favori.
Gli “Eletti” della città decisero di costruirla dopo un voto emesso pubblicamente, a nome della cittadinanza, il 13 gennaio 1527, durante un’epidemia di peste che fece sessantamila vittime. A causa di varie traversie i lavori, finanziati in gran parte con generose offerte popolari, cominciarono solo nei primi anni del secolo successivo. Il 16 dicembre del 1646 il busto e le ampolline contenenti il sangue vennero traslati dall’originaria ubicazione del “Tesoro vecchio” negli ambienti della torre di sinistra della facciata del Duomo, alla nuova cappella, che ben presto divenne meta obbligata non solo per i devoti del santo, ma anche per i cultori d’arte di tutto il mondo che ne ammiravano le bellezze, cogliendo l’occasione per osservare da vicino quel sangue prodigioso conosciuto in tutto il mondo. Per edificare la Cappella del Tesoro fu necessario abbattere tre cappelle preesistenti nella navata laterale del Duomo, e acquistare anche altre proprietà circostanti.
L’ingresso della cappella è sormontato da un busto bifronte del patrono, opera di Gennaro Monte; davanti agli occhi del visitatore spicca poi il maestoso cancello di ottone progettato dal campione del barocco napoletano, il grande scultore Cosimo Fanzago. In alto, si trovano lo stemma della città e l’epigrafe: “A San Gennaro, cittadino, patrono e salvatore, dalla fame, dalla guerra, dalla peste e dal fuoco del Vesuvio, per opera del sangue miracoloso, Napoli liberata”.
L’interno della cappella è tipicamente caratterizzato da un affollamento di oggetti e di decori, di dipinti, di affreschi, di statue soprattutto e di preziosi, che subito si impone e s’imprime nella fantasia del visitatore. Ai lati sono esposti i busti argentei di alcuni dei santi compatroni di Napoli. In alto, la cupola michelangiolesca affrescata con Il Paradiso da Giovanni Lanfranco; in fondo l’altare maggiore, progettato dal Solimena, nel quale spicca il paliotto d’argento, disegnato in parte da Dionisio Lazzari, completato da Gian Domenico Vinaccia, unanimemente ritenuto tra le massime espressioni artistiche nel suo genere. Vi è rappresentato l’Arrivo a Napoli dei resti mortali di San Gennaro (1497) dopo la lunga permanenza delle reliquie a Montevergine.
In alto, dietro l’altare, troneggia una grande statua in bronzo di San Gennaro, di Giuliano Finelli, raffigurato mentre alza la mano destra in segno di protezione. In tutta la cappella sono poi disseminati dipinti che raffigurano vari eventi collegati alla vita del santo, alcuni dei quali tratti da fonti letterarie che non godono di precisi riscontri storici. Alla decorazione pittorica della cappella lavorarono vari artisti nell’arco di quasi mezzo secolo.
Guardando l’altare della cappella, sulla sinistra, si vede il noto busto-reliquiario di argento dorato, che Carlo II d’Angiò, pio sovrano francese di Napoli, ordinò nel 1304 per sistemare dignitosamente le ossa del cranio del patrono. Dopo sei mesi di lavoro e ingenti spese, gli orafi di corte consegnarono un busto raffinato, da considerarsi – secondo il Causa – “tra i massimi capolavori dell’ oreficeria medioevale italiana”.
San Gennaro è raffigurato, come vuole quasi tutta l’iconografia classica, senza barba: secondo alcuni i lineamenti scelti dagli artisti francesi sarebbero stati quelli del busto marmoreo del santo custodito a Pozzuoli, altri sostengono invece che il modello ispiratore fosse il francese Umberto d’Ormont, che poco più tardi sarebbe divenuto arcivescovo di Napoli. I capelli del santo sono raccolti sotto uno zucchetto che può essere sollevato allentando alcune viti nascoste. Nel 1303 il Beato Giacomo da Viterbo, arcivescovo del tempo, depose in questa cavità i resti del cranio di San Gennaro, sotto lo sguardo attento di re Carlo: dalla devozione di un sovrano straniero nasceva, cosi, uno dei simboli più classici del culto ianuariano.
Dal colore del volto del santo, giallo per la patina d’oro con cui gli orafi coprirono l’argento, nacque il soprannome forse un po’ irriverente, ma usato con affetto e devozione dal popolo napoletano per secoli all’indirizzo del patrono: “Faccia gialla”.
Sull’altro lato dell’altare maggiore, solo in occasione delle ricorrenze legate a San Gennaro, viene esposta la teca che contiene le ampolline in cui si conserva il sangue del martire. La teca fu fatta realizzare da Roberto d’Angiò, successore di Carlo; quella “prima versione” venne poi arricchita nel XVII secolo, fino ad assumere l’aspetto attuale. Normalmente la teca viene incastrata in un tabernacolo in oro e argento, opera di Fanzago e Vinaccia, nella cui figura spiccano la statuina di San Gennaro benedicente e la corona di rose d’argento nella parte superiore. Quest’ultimo ricorda gli addobbi floreali con cui reliquie e clero dovevano adornarsi durante la cosiddetta processione degli “inghirlandati”, voluta nel 1337 dall’arcivescovo Orsini in memoria della prima traslazione delle spoglie del santo.
Ogni visitatore davanti a questa maestosa “casa” di San Gennaro, colpito e sopraffatto dalla pompa, dal lusso e dalla quantità di decorazioni, di ori, di stucchi, “che l’occhio da nessuna parte trova pace”2 troverà nuovi motivi di stupore e di ammirazione per ciò che la devozione di un popolo ha saputo realizzare, in memoria di un santo che a Napoli è anche, e soprattutto, un amico, un fratello, un compagno di strada nella vita di ogni giorno. Da sempre.

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