Gli esordi
Le illusioni se ne vanno.
Ho fatto per l'arte tutti i sacrifici.
Ma il pubblico vuole soltanto ridere... divertirsi.

«Nacqui in Castellammare di Stabia la notte del 10 gennaio 1888… Mio padre, Raffaele anche lui, era l’impresario teatrale dell’Arena Margherita, dove recitavano i poveri “Pulcinelli” del tempo, specialmente in estate … Le cose andarono a male; e proprio all’ indomani della mia nascita, in pieno battesimo, un sequestro tributario costrinse mio padre a venirsene a Napoli… sua città natale … S’era creato un vasto corredo di attrezzi teatrali e di costumi e cominciò a fornire i teatrini dei quartieri popolari… Lo accompagnavo… e stavo là a godermi lo spettacolo. M’interessava la recita dell’«Opera dei pupi» del teatrino della Porta di San Gennaro … Cantava tra i «numeri» che completavano lo spettacolo marionettistico un certo Gennaro Trengi, tenore e comico Una sera si ammalò … Fui vestito con l’abito di un pupo, che mia madre raffazzonò alla meglio Avevo quattro anni e mezzo e cantai … con voce tremula, esitante… Dopo qualche mese… ebbi anch’io la mia paga… ed anche tanti bei vestitini a colori, come li usava il Trengi. .. Ebbi ben presto anche una duettista, Vincenzina Di Capua, una bellissima adolescente… Ed io la corteggiavo, sia nelle vesti di monaco, nel duetto “Fra Bisaccia” che in quello di un ufficiale del 700 – il duetto «un bacio rendimi …» dall’opera comica “Le educande di Sorrento” dell’Usiglio – e, a stento, le arrivavo alla vita! Vincenzina, per darmi un bacio, in iscena, doveva piegare il busto in avanti … Mio padre voleva che non sbagliassi mai, che non mutassi una virgola di quanto mi aveva pazientemente insegnato. Una mossa non fatta a tempo, appena rientravo in quinta… giù una frustata ed io piangevo; e lui mi vestiva e mi asciugava gli occhi, buttandomi fuori per l’altra canzone …»
Così Viviani nella sua autobiografia inedita racconta delle sue origini di artista del teatro di varietà dove debuttò da ‘figlio d’arte’. Il padre gestiva piccoli locali, in quel mondo popolare che fu di Petito, fatto di personaggi e di comparse, sui poveri palcoscenici, come nelle strade: una commedia umana caratterizzata dalla fantasia e dalla filosofia della miseria, ma ben legata ancora ai suoi propri lavori, a codici di comportamento.
Il varietà e il teatro delle marionette furono l’ambiente di Raffaele Viviani bambino: le regole di quel teatro sono la sinteticità (non a caso i futuristi ne rilevarono le affinità con le loro ipotesi teoriche, come prova dal vero delle proposte di teatro simultaneo), il ritmo, la musica. Le marionette, poi, rappresentano la favola, ma anche quella parte di noi che non è controllata, che avvicina i nostri comportamenti, i nostri impulsi, le nostre reazioni a qualcosa di archetipico.
Nel teatro di Viviani, il vero dell’individuo è quella verità in più, generale, che ci permette di leggere tanto dentro gli altri quanto in noi, o di vederli come figure che conosciamo già, che sono nostre e rassicuranti, siano essi pazzi o disperati o criminali, coesistono sempre, in un continuo passaggio fra la realtà interiore e la realtà di fuori.
La sua carriera d’attore lo porta, come in un popolare romanzo d’appendice, dalla miseria alla celebrità. Prima del drammaturgo ci fu quindi il macchiettista, l’autore di canzoni, di brevi scene, in un teatro fondato sulla bravura dell’interprete, sulla sua capacità di costruire dei “tipi”, di saper muoversi, cantare, creando una immediata empatia col pubblico. La scena popolare napoletana, partendo dalla teatralità della vita, continuava la creazione delle maschere della Commedia dell’Arte, come un retaggio fusosi nella sensibilità degli attori, guitti o illustri che fossero.

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