I Bassi

Nel magnifico saggio «’O vascio» la giornalista napoletana Concetta Celotto ci racconta come i «bassi», insieme ai panni stesi ad asciugare al sole e ai vicoli, rappresentano l’altro volto di Napoli, quello che al colore della tradizione mescola lo squallore ambientale, il contesto di miseria degli strati sociali più emarginati della città, luogo di confine dove gli esseri umani non invecchiano ma abbrutiscono.
I «bassi» hanno una lunga storia che affonda le proprie origini nel Medioevo. Alcuni ipotizzano anche prima facendoli risalire all’epoca greco-romana.
A ben leggere Cartografia della città di Napoli dello storico d’arte Cesare De Seta emerge che nella Napoli del Seicento i «bassi», nella gran parte dei casi, erano occupati da gente misera, ma utilizzati anche da piccoli artigiani e dai bottegai per l’esercizio del loro commercio e dove si lavorava e si viveva, essendo largamente adoperati anche come abitazione.
Nel corso dei secoli questi luoghi sono stati il teatro di tragici avvenimenti della storia di Napoli, come le numerose epidemie di peste e colera, causate dalle precarie condizioni igieniche, eruzioni, terremoti.
La scrittrice e giornalista Matilde Serao nel suo libro Il Ventre di Napoli ci presenta quel microcosmo afflitto dalla miseria con “case in cui si cucina in uno stambugio, si mangia nella stanza da letto, e si muore nella medesima stanza dove altri dormono e mangiano; case in cui sottoscala, pure abitati da gente umana, rassomigliano agli antichi, ora aboliti, carceri criminali della Vicaria”.
Eduardo De Filippo, nelle sue commedie inscena Napoli tra i bassi dei Vergini, di Forcella, del Pallonetto, dove le vicende dei personaggi si stagliano con le loro usanze, credenze e superstizioni. I «bassi» sono descritti come tuguri dove il sole appena trapela, abitati da molte famiglie che non hanno mai visto il mare, con il sottosuolo invaso dalle acque putride delle fogne e strade invase già alle cinque del mattino da una torma di scugnizzi alla ricerca di aria, luce, spazio vitale.
Nel dopoguerra, lo scrittore e giornalista toscano Curzio Malaparte, nel suo celebre libro La pelle nel descrivere il centro antico di Napoli ci spiega con grande efficacia questo luogo da tragedia greca. Lo scrittore usa una scrittura decisa, cruda che si sofferma sui alcuni particolari più disgustosi e rivoltanti come le esalazioni puzzolenti emanate in egual misura da osterie e friggitorie e dagli orinatoi annidati in ogni angolo dei quartieri, un lezzo nauseante tra cacio di pecora e pesce putrefatto.
Da quando esistono i bassi a Napoli? Molti sono stati gli scrittori che ci hanno descritto l’inconfondibile atmosfera di questa icona dell’antica miseria del popolo napoletano. Il primo scrittore che li descrive è stato Boccaccio, che nel suo Decamerone ci mostra il mondo quotidiano di un basso napoletano seguito nel quattrocento dal novellista Masuccio Salernitano famoso per aver scritto il Novellino e poi troviamo le storie ambientate nei vicoli da Giambattista Basile nella sua opera Pentamerone. Nell’Ottocento troviamo tanti romanzi che denunciano l’arretratezza e le disastrose condizioni di vita che nei bassi si conduce. Da Francesco Mastriani con la sua opera I Misteri di Napoli a Jessie White Mario con il libro la Miseria in Napoli, poi Antonio Ranieri con il suo Ginevra o l’orfana della Nunziata e Pasquale, l’autore di l’Oro di Napoli, che nei suoi racconti ci conduce nel cuore intimo della città.
Quanti sono attualmente i bassi?
Nel 1644 ne contavano già 1500 come ci informa Nino Leone nel suo La vita quotidiana a Napoli ai tempi di Masaniello. Nel 1884, quando il governo sabaudo promosse la legge per il Risanamento dei quartieri più degradati della città erano più di ventiduemila i locali a pianoterra e vi abitavano 105.257 napoletani. Nel 1931 erano saliti a 43.507 ed ospitavano circa 220.000 anime di tutte le età. Alla fine degli anni cinquanta erano arrivati a quota 65.000, mentre attualmente non sono meno di 40.000.
Nonostante che negli ultimi decenni gli amministratori pubblici abbiano cercato di vietarne l’agibilità molti bassi continuano a essere abitati da napoletani che non intendono abbandonare il luogo dove sono nati e, in tempi recenti da immigrati che in alcuni quartieri tendono a suddividersi per nazionalità. Questa variazione antropologica ha mutato radicalmente anche l’economia del vicolo, accompagnata dalla scomparsa di tanti mestieri tradizionali come il concia tegami che riparava tegami, pentole di terracotta, il cenciaiulo, detto anche «o’ sapunaro» che offriva sapone in cambio di oggetti vecchi, l’impagliaseggia, una lavoratrice ambulante che riparava sedie rotte e l’immancabile pizzaiolo che faceva pizze per tutto il vicolo. Tanti personaggi che hanno reso famosa la vita dei vicoli, che sono stati cantati da poeti, scrittori, musicisti e che sono entrati nelle tele di famosi pittori.
Resistono i «bassi» del centro come rileva Paolo Macry nel suo bellissimo libro Napoli, nostalgia di domani e “resiste un arcipelago di micromercati all’aperto che si allunga sui decumani, via Toledo, piazza Garibaldi ed è oggi di competenza dei nuovo venuti asiatici e africani. Resistono quei singolari boutiquiers che hanno adattato una pozione del basso alla vendita di pochi generi di merceria, alimenti freschi, cibi cotti. Il territorio urbano è di chi, spesso da generazioni lo abita”.
Il centro storico di Napoli, dichiarato nel 1965 dall’Unesco Patrimonio mondiale dell’Umanità, vive, infatti, ancora oggi, nonostante alcuni notevoli cambiamenti delle condizioni di abitabilità, una condizione di vistoso degrado, che i piani di rinascita e recupero approntati dalle amministrazioni intendono eliminare restituendo al centro storico l’antica funzione di cuore culturale, sociale ed economico della città.

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