La estetica napoletana

Quando si rappresenta il napoletano si è soliti caricare toni, cadenze, gesti.
Si fa dello spirito fuori posto, come il risultato. Dalla caricatura all’alterazione la differenza è tanto piccola nell’azione quanto grande nell’effetto.
Si simulano umorismo e comicità. Si dissimulano ignoranza di linguaggio, carenza di sensi­bilità. Ciò avviene e in una tavola rotonda imbandita con testi arabi e greci, occupata da glottologi e in una insignificante conversazione telefonica, e in uno impegnato spettacolo d’avanguardia e in una superficiale rassegna canzonettistica.
Si trascura che il linguaggio napoletano è espressione di estetica cioè complesso di fattori (immagini, eufemismi, metrica, valori pedagogici e sociali, battute, sintesi) produttivi dell’ar­monia del bello. E si dimentica o si ignora anche la sua purezza. Indubbiamente il napoletano soggiace alla norma della evoluzione (né potrebbe esserne esente, trattandosi di una legge naturale) ma il suo sviluppo è caratterizzato da una tendenza lenta a napoletanizzare termini stranieri contrapposta ad una propensione rapida ad inserire altrove la sua parola. Non nego ai dialetti (o, più genericamente, ai linguaggi limitati) la frequenza di tali fenomeni né intendo operare una gerarchia dei sistemi linguistici per porre il napoletano al vertice o in posizione di estraneità. Mi propongo solo di dire una parola -particolare e meritata- a suo favore per sottrarlo a quelle ripetute inesatte espressioni dal tono guappesco o furbesco, strumenti di ingiuria, esempi di irregolarità.
Poiché ogni tesi va motivata, a favore della estetica napoletana richiamo all’altrui memoria la circostanza che nel nostro linguaggio i figli ignoti sono «’e figlie d’ ’a Maronna».
Per evidenziare la nullità totale di un soggetto si adotta una formula di tre parole: una espressione dotata di una forza umoristica so­stitutiva della violenza della ingiuria: «mac­carone senza purtuso».
Rappresentativo nelle similitudini:
«contenuto comme a na Pasca, vacante comme a na cucozza, frisco comme a na rosa, zompa comme a n’arillo»;

rapido nell’imperativo:
«còsete ’a lengua!» (come il latino: «favete linguis»), il napoletano col suo stile è tanto

ironizzante nella ingiustizia:
«si me metto a fa’ coppole ’e criature nasceno senza cape»
(variante: «si me metto a fa’ càntare nascono l’uommene senza culo»);

quanto generoso nella proposta di perdono:
«chi ha avuto ha avuto ha avuto
chi ha dato ha dato ha dato,
scurdammece ’o passato» (Fiorelli),

tanto sintetico nella diagnosi:
«come te si’ scetato addiruso» ;

quanto dinamico nella terapia:
«quanno ’o pede corre, ’o cuorpo è contento»;

tanto conclusivo e senza mezzi termini nel congedo:
« chesta è ’a ricetta e Dio t’ ’a manna bona»,

quanto osservante della legge fino a sottoporre ad essa lo stesso legislatore:
«Gioacchino facette ’a legge e Gioacchino fuje acciso» (si allude a Gioacchino Murat).

Il napoletano si manifesta, inoltre, nella efficacia delle immagini, come in questo muto colloquio di uno sguardo:
«uocchie ch’arraggiunate senza parlà» (Falcone – Fieni )

o in queste unioni, auspici di non violenza, vivi da tre secoli nella Pastorale di S. Alfonso Maria de Liquori «Quanno nascette Ninno a Betlemme»:
«la pecora pasceva cu ’o lione
cu ’o capretto se vedette
’o liupardo pazzià
l’urzo e ‘o vitiello
e cu lu lupo ’npace ’o pecuriello»

o, anche, nell’alternarsi di un’autorizzazione e di un divieto manifestati
«cu ’o pede piccerillo
ca ’int’ ’a cazetta nera
p’ ’e fierre d’ ’a ringhiera
mò dice sì mò no». (Di Giacomo)

La metrica napoletana, fatta di accenti, sillabe, ritmo, rima ed altri fattori sempre più musicali, è giunta ad una tale perfezione da imporsi con versi da dimensioni minime:
con pentasillabi:
«na casarella
pittata rosa
’ncopp’ ’e Camaldule
vurria tenè » (E. Murolo)

con senari e trisillabi doppi
«è crisceto ’e pasta
ca cresce ’int’ ’e mmane
ca ’ncopp’ ’o bancone
se stenne, se sbatte
chhiù tonna, cchiù janca »(Cicala)

con bisillabi
«Scalinatela
longa
longa
longa
longa…

Nun sponta ancora
zuc
zuc
zuc
zuc
zucculillo» (Bonagura);

è uscita dall’assonanza o dalla consonanza dei canti popolari per giungere alla esasperata disciplina dei metri latini come nelle Carduccianelle di Capurro.
Se dunque il napoletano offre spunti per un saggio di estetica linguistica perché caricare in­flessioni e movimenti?
Questo comportamento è, a mio avviso, anche conseguenza del frequente abuso o uso immotivato della qualificazione «popolare» che accompagna illegittimamente l’origine e lo svi­luppo del canto, della tradizione, del sentimento; come se l’aggregato sociale designato generalmente con lo stesso attributo fosse stato il fattore produttivo esclusivo e non (come io ri­tengo) concorrente della corrispondente cultura. Si parla dunque di canto «popolare», tradizione «popolare», sentimento «popolare», trascurando che grandi pensatori di casa locale e fama mondiale non rifiutarono una «toccatina» per scaramanzia e a Corte si parlava napoletano non per apparire plebei o «chic» ma per un «idem sentire».

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