Miseria e nobiltà

Lo spettacolo debutta il 7 gennaio 1887 al Teatro del Fondo: fu scritto affinché vi partecipasse il figlio Vincenzo allora dodicenne nella parte di Peppeniello. Sebbene giocate in termini di caratteri, le collocazioni sociali sono precise e la macchina è perfetta: con questo testo Scarpetta mette a frutto un decennio di riflessioni teatrali scaturite da Petito e di prove operate grazie agli attori nel corpo vivo della tradizione teatrale.
Protagonisti di Miseria e nobiltà sono Felice Sciosciammocca, l’amante Luisella, il figlio Peppeniello, e poi ancora Pascale, la moglie Concetta, la figlia Pupella: vivono in una «camera squallidissima» (I atto), patiscono la fame, sono minacciati di sfratto, sopravvivono a forza di pegni. Costoro (tranne Peppeniello e Luisella) organizzano, per conto del marchesino Eugenio, un imbroglio che potrà almeno sfamarli per qualche ora: dovranno travestirsi da nobili, fingersi parenti del giovane e chiedere per lui la mano di Gemma, figlia di Gaetano, un ricco borghese. Nel salotto di quest’ultimo si svolge (II e III atto) la commedia dentro la commedia, con equivoci e colpi di scena che ricordano le pochades francesi. Si determina così un groviglio di equivoci, scambi di persone sotterfugi, in una catena ininterrotta di situazioni teatralissime fino all’ agnizione generale e conclusiva. Il tema è lo stravolgimento comico (e anche grottesco) a cui i popolani sono costretti prima dalla fame e poi dal travestimento; la spia più vistosa è il linguaggio che oscilla fra il dialetto e un italiano ibrido, convenzionale, ipercorretto e di maniera. La conclusione avviene in virtù di una rete di matrimoni che sanzionano l’inglobamento della miseria e della nobiltà all’interno dell’area borghese impersonata dalla famiglia dell’ arricchito e stupido Gaetano. Solo Luisella amante irregolare di Felice, rimane estranea al lieto fine. Gli altri hanno intravisto la fine della miseria proprio nel mondo dei «putecari» (bottegai) contro cui aveva imprecato Felice; lo stesso aveva detto (II, 7): «Neh? lu pezzente che nce campa a fa’? … Il mondo dovrebbe essere popolato di tutti nobili….Tutti signori, tutti ricchi!… Pezziente nun nce n’avarriene da sta’! … Eh? .. E se nun nce starriene pezziente, io e Pascale sarrieme muorte… »
Miseria e nobiltà dimostra che, raggiunta la forma desiderata, Scarpetta si illuse di aver definito qualcosa di autonomo e, di personalissimo, senza accorgersi che le sue commedie migliori funzionavano proprio per i «contenuti» che trasformavano i comportamenti sociali in comportamenti teatrali e davano a questi un equilibrio espressivo perfetto.
«L’ambiente, il dialogo, i personaggi delle pochades» scrive Scarpetta «sono tanti dissimili dall’ambiente, dal nostro dialogo e dai nostri personaggi che ridurre significa spesso ricostruite, rifare. E per ricostruire, rifare ed ottenere un successo è indispensabile, prima di accingersi all’opera, rivivere tutta intera la pochade, che si vuole ridurre, nell’ambiente del teatro pel quale si scrive. I personaggi debbono non solo spogliarsi dei loro abiti, ma cangiare fisionomia, gesto e voce, e l’intreccio della commedia subire talvolta la sorte dei personaggi, se non si vuole che le persone diventino grottesche marionette e le scene un’arruffata sequela di episodi sconclusionati. Il ricco commerciante parigino non parlerà, non penserà e non si muoverà mai come un pizzicagnolo arricchito del Mercato e del Pendino; e cosi una servetta, un portinaio, un venditore ambulante napoletani saranno ben diversi da coloro che esercitano in altro paese lo stesso mestiere: tanto diversi per quanto sono dissimili il linguaggio, i costumi e il grado di civiltà di quel paese dal nostro. […] Senza darmi l’aria di avere scoperta l’America, io posso dire che debbo a questo intuito di assimilazione e di adattamento i miei maggiori successi» . Questa sua scelta ha funzionato anche da palestra e ha educato generazioni di attori.

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