Artista di Varietà

Dopo un rapidissimo apprendistato teatrale al seguito del padre, la cui morte prematura lasciò la famiglia «nella più aspra indigenza», il dodicenne Raffaele, dovette smettere di cantare per piacere ed esibirsi per vivere, sfruttare tutte le proprie qualità naturali e trasformarsi in artista.
Proprio qui nel varietà nel 1904 riesce a trovare una scrittura al teatro Petrella, un locale vicino al porto frequentato da marinari, doganieri, scaricatori e prostitute, dove interpreta per la prima volta Scugnizzo, più un bozzetto drammatico o una macchietta che una canzone vera e propria. Ricorda Viviani: “Capii che essa [Scugnizzò]avrebbe potuto trovare nella mia interpretazione le corde necessarie perché vibrasse tutta di vita reale; pensai che io avrei potuto dare a quella creatura lacera e scarna i palpiti esili del cuore, la dolcezza dell’anima, la mitezza monellesca del temperamento, perché quegli esseri erano vissuti accanto e ne avevo non studiate, ma immagazzinate– direi così- tutte le caratteristiche”.
La miseria, la vita passata in strada, la casa al vico Finale, una traversa del borgo Sant’Antonio, la vicinanza non solo al proletariato marginale ma ai diversi aspetti dell’emarginazione sociale e cittadina gli fecero «riconoscere» in quel testo sullo scugnizzo un’immagine di quella realtà tanto vicina alla sua esistenza personale e comprendere che sarebbe bastata la sua esperienza quotidiana per riempire di verità la finzione teatrale e fruttare un’interpretazione del tutto diversa da cui creare addirittura un modello artistico inedito. Il successo fu enorme, e da quel momento passò dal Petrella all’Arena Olimpia e intraprese il cammino che lo avrebbe portato ad essere una stella di prima grandezza.
La sua carriera di artista completo (recitava, cantava, suonava vari strumenti, era acrobata) e quella di autore procedettero di pari passo. Egli fu sublime in quell’arte della macchietta che costituiva per lui un retroterra indimenticato e fertile di esperienze della scena popolare e poi di scrittura. Peraltro la sua “cultura” della scena varieristica si era formata alla scuola di macchiettisti come il napoletano Nicola Maldacea, che se non era stato “inventore” del genere, certo l’aveva messo a punto.
Realizzare una rassegna minuziosa della varietà e umanità del mondo popolare è quasi intendimento del Viviani macchiettista che opera su Napoli e diviene autore di testi, poesie, musiche, allestitore di messinscene e fondatore di una scuola di attori con le sue compagnie. La città è protagonista delle sue macchiette di adolescente e poi di giovane attore di varietà; essa ritorna negli atti unici, a cominciare da ‘O vico, andato in scena sul finire del ’17 in un popolare teatro napoletano, seguita da Tuledo ‘e notte (1918), autentici spaccati di vita napoletana, ridente e drammatica insieme che egli sviluppo nei numerosi lavori seguenti come ‘A figliata (1924), Guappo ‘e cartone (1932), La tavola dei poveri (1936), trasferito anche in film di Alessandro Blasetti, uno dei primi esemplari del «neo-realismo» cinematografico italiano e così via, fino agli incompiuti I Dieci Comandamenti del 1950, anno della sua scomparsa. Con quest’ultima opera Viviani ha stilato il suo addio, il suo testamento. E’ il testamento di un grande che ha trasfuso in questo copione la su sapienza scenica e insieme la sua saggezza di uomo.
Per Viviani il teatro è il primo e unico suo strumento espressivo, che ingloba ogni altra forma, dalla mimica al canto, alla musica alla lirica dialettale. Nella sua opera di drammaturgo, l’attore napoletano esprime i suoi risentimenti contro la mala sorte e la sua polemica sociale, in una specie di epopea della povertà, del lavoro, dell’emigrazione, dell’emarginazione, della condizione della donna e così via. “Il mio è un teatro”, scriveva Viviani, “fatto di suoni, di voci, di canti … non di intrecci e di problemi centrali. Vivifico le mie vicende sceniche sempre con qualche cosa di puramente mio, se volete, e riuscendo a non rassomigliare a nessuno, penso che questo è il mio maggior merito. Le cose mie non rassomigliano a quelle degli altri, perché fortunatamente le cose degli altri le ignoro. Mai come in questo caso: Santa Ignoranza! E che faccio adesso -dovrei chiedermi- se questo lo già fatto Tizio in modo stupendo e quello che ha Caio in maniera superba? Mentre io vedo tutto vergine davanti ai miei occhi, campi sterminati da mietere…”
Viviani è ormai riconosciuto come un grande personaggio della scena quando, nel 1917, diventa attore drammatico; è una di quelle scelte obbligate, che segnano tanti percorsi e tante invenzioni d’arte. Ma quello che era rimasto gesto, movimento, impulso, in teatro per il popolo che imitava o plagiava i classici o i francesi, in Viviani diventa il teatro che si accorge come la vita che sta intorno è il vero soggetto, non solo per amore della realtà, ma soprattutto perché teatralmente funziona. La necessità che porta Viviani alla drammaturgia fu la proibizione del teatro di varietà in seguito alla disfatta di Caporetto. Dai testi del primo periodo, alcuni poi rielaborati, Viviani passrà a un teatro dove la situazione sarà più legata al personaggio, dove le psicologie saranno più individualizzate, quasi che il tempo desse una dimensione in più al suo teatro. Ma la grandissima forza del primo Viviani è quel suo “presente” che, come ogni “presente” per tutti noi, è solo cancellazione del passato e del futuro; quindi è eterno, maschera delle maschere.
Nel dramma Borgo Sant’Antonio, con fierezza Assunta canta:
«‘A ggente dice ca è nu preputente?
Che me ne rapporta si pe’ mme è nu santo!».

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