Per secoli si è affermato che Pulcinella sia il cuore di Napoli, ‘o core, ossia l’essenza. A Napoli dopo il re e la Madonna, veniva Pulcinella.
E c’era a Napoli un cocchiere, Salvatore Sinagra, che lasciò la carrozza per fare Pulcinella. Lo chiamavano il Pulcinella di Ferdinando II. Il giorno più significativo fu quando recitò Il ritorno di Pulcinella dagli studi di Padova. Il sovrano si complimentò: «Bravo Sinacra! Conosci pure il latino. – Meglio d’ò napulitano Maistà. – Allora leggi qua». Gli confidò che senza occhiali non poteva. «Pulicené, tu non sai leggere manco ‘a Santa Croce.
˗ Maestà, cchiù che leggere latino e italiano, Pulecenella addà sapè leggere dint’o core».
Sono infinite nel tempo le interpretazioni su questa celebre maschera. Pulcinella fu tante cose, fece tanti mestieri, ma tutti tesi al solo scopo di soddisfare la fame. Antonio Petito nell’Ottocento per poco non lo fece diventare un carbonaro, un galantuomo. Ma tutte le volte che Pulcinella si mise a ragionare finì per dire sciocchezze, non le sue proprie sciocchezze, bellissime, parlare per parlare, che è l’unica sua grande forza, ma dicendo le sciocchezze di chi è stupido; mentre Pulcinella ha una intelligenza nera e irraggiungibile.
Pulcinella è universale perché tutto ciò che fa è per fame. Tante altre maschere della Commedia dell’Arte hanno fame, ma la fame per Pulcinella è un’idea fissa, un sottinteso perpetuo della sua vita, un orgasmo erotico. Il corpo è tutto. Anche anima. Anche fede. Anche sesso. Quest’ultimo che, quando voleva, faceva “maciello” delle belle nei “bordelli”, cadeva in ginocchio di fronte a un piatto di “maccaruni” fumanti.
Pulcinella ai maccheroni deve la vita, ai maccheroni che sono stati e sono il nutrimento del popolo di Napoli. I maccheroni fumanti se li ficca dappertutto, in tasca, nel camicione, nel cappuccio. Affezionato alla taverna e ai maccheroni, poteva sopportare anche il mare, ma da lontano. «Llo mare è bello, si diceva sovente ma patemo diceva: Figlio, ama llo mare e tienete alla taverna». Il suo universo mangereccio sortiva l’effetto desiderato: di saziare se stesso e gli altri con un gioco di parole:
«Tengo na famme ca me magnarrìa
Napole attorniato de panelle
Tengo na sete ca me vevarrìa
Puoggi Rial eco lle Fontanelle»
Per lui la salute è l’inerzia del cervello. Facile ad accendersi, Pulcinella si offre prima ad un’impresa; ma se vi corre rischio la pelle, è il primo a fuggire. Non ha importanza che a minacciarlo sia uno dei tanti sbirri delle tante dominazioni straniere a Napoli. Cade ai suoi piedi, oltre che per la libidine di servitù, perché ammirato dell’uniforme che indossa lo sbirro, della spada rilucente, del possente cavallo che lo sbirro cavalca. Se gli sbirri sono in marcia si mette davanti al drappello e, per ebbrezza, minaccia la gente che assiste alla sfilata.
“Bisogna un servo?” Pulcinella è disposto a servire chiunque fino ad adorarlo. Quel che non farà mai è lavorare e in mezzo ai più neri guai salta, balla e canta. Ha un naso speciale per avvertire meglio gli odori e dirigersi verso la fonte. È diritto nel senso che sa che sta facendo il fesso. (E questo è proprio napoletano).
Quando parla, farfuglia, ripete prefissi, suffissi e desinenze fino alla paranoia, fino a dare il sospetto che non pensi, che abbia la scatola cranica vuota, che le parole non subiscano la selezione del cervello ma sia¬no espresse direttamente dalla pancia. Non ha coscienza.
Pulcinella, uomo globale, non conosceva mezze misure. Con un corpo grosso, dominato e governato da istinti animaleschi, i suoi organi potevano parlare, lamentarsi, ragionare tra loro senza svergognarsi di nulla perché tutto rientrava nella fragilità della carne.
A chi bussa alla sua porta di casa, scorreggiando, risponde: «Non potete entrare perché sto cacando». Il suo più grande piacere (voluttà) è immergersi nel viscerale. Il corpo deve star bene. Il corpo deve scialare. Lui è il viscerale, il carnale, lo scorreggiatore sognante, l’anarchico del Corpo. Oltre i margini di esso non esiste nulla, né moglie, Zeza, né figlia, Tolla. Il corpo come metafora della natura. Le ragioni del corpo sono anarchiche. Perciò mangia una fava e butta la scorza per terra.
Pulcinella porta tra le gambe una piccola campana che suonava ad ogni passo, sottolineando l’importanza attribuita agli organi genitali in quanto concetto della trasmissione dei caratteri ereditari. Nemico della Malattia, amante della Salute, compagno d’osteria della Morte, con cui si intrattiene in discussioni lunghissime per scaramanzia, Pulcinella sopravvive alle pesti, alle carestie e alla violenza dell’autorità.
Pulcinella non si lamenta mai. Con filosofica rassegnazione, soleva ripetere: «Un’ora di buon sole rasciuga molti bucati». Piange, strepita, fa rumore, rumore, rumore, rumore; perché per Pulcinella l’allegria era baccano. Non poteva essere allegro perché era fondamentalmente triste. Mentre s’inebria se può mangiare tamburi, piatti, trombette, fischi e può usare mani, bocca e piedi.
Pulcinella non persegue gloria, verità e potere, ma la libertà l’etica e l’amore. L’amore va alimentato dalla poesia come le piante dall’acqua. In ogni parte del mondo l’uomo è una miseria senza la donna. L’ideale della donna che ha sempre perseguito è la donna reale, comune e naturale: «Na femmena tanno è veramente femmina quando se sabe risolvere e non sperderse». Egli non può essere eroe, perché ama la natura. Egli dimostrò che il contadino è colui che vive di sé, non di cultura riflessa. Forse è di Pulcinella una delle sentenze più austere del popolo napoletano:
«ca’, io e te simmo ’e meglio e nu’ simmo ‘na gran cosa».
Per Pulcinella la scienza più grande è l’ideale più corretto sono l’amore alla vita. I napoletani di sempre in molte azioni, gesti e detti lo ricordano. La jettatura era in cima a ogni detto di Pulcinella. Ed è ancora l’unica arma in cui credono i napoletani.