In quasi tutti i paesi della Campania ogni anno si festeggia la morte del Carnevale. Gruppi di persone, prevalentemente ragazzi, si mascherano con abiti dell’altro sesso, da parenti di Carnevale —che viene così personificato—, da preti, da deformi con finte gobbe, finti nasi, e vanno in giro per le strade del paese, per le case degli amici, per i casolari di campagna, spesso suonando, cantando e facendo scherzi di vario genere. Sempre durante il Carnevale è tradizione che le ragazze indossino il panno rosso come augurio per trovare marito.
In alcuni paesi ai mascherati si offrono dolci ai bambini e polpette di maiale o salsicce ai più grandi; carne di maiale si manda in regalo alle famiglie di parenti ed amici. Il maiale costituisce l’elemento base delle pietanze che si sogliono preparare nel periodo di Carnevale. In tale periodo infatti avviene per lo più l’uccisione dei maiali, che molte famiglie allevano durante l’anno o comprano per l’occasione.
In numerosissimi paesi nelle case e nelle piazze si recitano delle farse che prendono spunto da fatti realmente accaduti e da personaggi del paese sui quali si ironizza.
Molte altre modalità carnascialesche potrebbero essere riportate, ma già quelle sin qui, ricordate possono dare un’idea di come il Carnevale viene vissuto in alcuni paesi della Campania. Sotto una forma scherzosa tali modalità rappresentano processi estremamente complessi e rinviano ad antiche forme rituali. Ognuna di tali modalità costituisce un elemento culturale di cui si potrebbe ricostruire lo spessore storico e la funzione che svolgeva e, spesso, continua a svolgere.
Ad esempio, il testamento di Carnevale si ricollega al filone dei testamenti degli animali (dell’asino, del tacchino, e così via), spesso presente nella cultura folklorica. L’animale che sta per morire lascia le parti del suo corpo ad alcuni personaggi del paese con delle motivazioni che costituiscono di fatto una denuncia pubblica dei loro vizi e dei vizi attribuiti alle persone così prese di mira. Tutto ciò rappresenta un meccanismo attraverso il quale si identificano le malefatte della comunità, attraverso una formulazione scherzosa apparentemente innocente (in quel giorno si possono dire cose o svelare vizi che in altro momento non potrebbero essere detti senza costituire offesa) e, nel momento in cui si dicono -e nella misura in cui si dicono-, ci si libera da essi.
Il funerale e l’eliminazione del fantoccio Carnevale rinviano alla dinamica del “capro espiatorio”. Sinteticamente, tutto il male commesso nella comunità viene denunciato, caricato simbolicamente sul simulacro di una persona (ma anticamente era una persona); questo viene scacciato dal paese, bruciato e gettato in un burrone, in ogni caso eliminato dall’orizzonte della vita della comunità. Questa, purificata, potrà riprendere la vita quotidiana dopo il periodo dell’eccezionale carnevalesco.
Andrebbero approfondite, anche, le motivazioni psicologico-sociali e culturali sottostanti all’esigenza del mascheramento in cui si è se stessi e altri da se stessi e non si è perciò totalmente responsabili delle proprie azioni, come se queste fossero poste in essere da altri. Si potrebbero porre in rapporto travestimento e paura sociale, verificando l’ipotesi che quanto maggiore è la paura dell’ordine costituito dalle classi dominanti, dei detentori del potere, di tutti gli altri visti come concorrenti, sempre più temibile nella misura in cui i beni sono limitati, quanto più radicale e la condizione di soggezione, tanto più intensa è l’esigenza del travestimento. Se la mia condizione di dominato non mi consente di testimoniare direttamente la realtà, lasciare che esso esista ma testimoniarlo come se fosse di un altro.
I «Dodici mesi» a Sant’Agata de’ Goti
A Sant’Agata dei Goti, in provincia di Benevento, fino a poco tempo fa, si celebrava una sorta di rappresentazione itinerante che era quella che si diceva dei Dodici mesi. L’origine si perde nel tempo passato. Pare che le radici si debbano cercare presso gli Egiziani, i greci e i Romani. Un codice bolognese del Trecento, che ci dà le prime notizie più concrete e dirette, si rifà a testi latini precedenti risalenti almeno al Duecento.
I Dodici mesi erano rappresentati da altrettanti giovani abbigliati in modo da dar l’impressione, nell’abito, delle qualità del mese che simboleggiano e da altri quattro attori che personificano le quattro stagioni. Padre di tutti era Matusalemme. Era una sfilata carnevalesca che intendeva celebrare l’inizio dell’anno nuovo. Dopo aver percorso le strade del paese, seguiti da un carro tirato da un mulo sul quale sedeva Matusalemme con la moglie, gli stravaganti personaggi si riunivano in ogni piazza e, disposti in cerchio, recitavano e mimavano a turno un monologo in rima.
Parlava alla gente per primo Matusalemme che nella tradizione biblica è un patriarca antidiluviano vissuto 969 anni. Presentava i suoi dodici figli ad ogni tappa e questi prendevano l’uno dopo l’altro la parola per dire le proprie generalità e le proprie prerogative. Diceva Matusalemme: «Oh me, addò me ritrovo! Ho dormito 900 anni e adesso che mi sono svegliato mi son trovato con dodici figliuoli attorno a me. Ecco il primo figlio mio, Gennaio. Gennaio, fatti avanti, recita la tua parte e fatti onore». E Gennaio:
«Io so’ gennaio il primo mese e da me comincia l’anno.
Inoltre ccà ci stanno altri mesi appriesso a me.
Siano dodici fratelli che girano intorno intorno
notte e giorno senza mai se ripusà …»
Seguivano gli altri. Naturalmente alla fine concludeva la rappresentazione Matusalemme sentenziando: «come il tempo passa e gli anni si succedono lieti e tristi, così la vita umana è un intreccio di gioia e di dolori».