Napoli è un crocevia di emozioni e di sensazioni; uno stratificarsi di vissuti e di vicende storiche, di entusiasmi e di delusioni, di traguardi e di sconfitte.
Ogni volta che cammino per le strade, le piazze e i vicoli del centro della città mi capita spesso di pensare a Pino Daniele e alla sua canzone Napule è che ci parla non solo delle contraddizioni e della difficile realtà di questa città ma anche della sensazione di indifferenza e di rassegnazione per questa situazione.
Corpi
Napoli ha sempre ispirato metafore. Perché non c’è una sola Napoli, ma molte Napoli da quella «porosa» di Benjamin a quella «densa» di Herling. Perché al di là dell’oleografia spesso insopportabile di Napoli come città del sole e mare, luce e aria, ad altri osservatori disincantati appare meno luminosa.
Walter Benjamin nel 1924 si trova a Napoli di passaggio e scrive: «Impressioni di viaggio fantastiche hanno colorato la città. In realtà è grigia: un grigio rosso o ocra, un bianco grigio. E’ molto grigia nei confronti del cielo e del mare […] La città è rocciosa […] L’architettura è porosa come questa roccia. Edifici e azioni si trasformano gli uni nelle altre in cortile, arcate, scalinate. […] Si evita il definitivo, il codificato. Nessuna situazione, così com’è, sembra pensata per sempre, nessuna forma impone: “così e non altrimenti”[…] Per orientarsi, nessuno usa i numeri civici. I punti di riferimento sono dati da negozi, fontane e chiese, ma neanche questi sono sempre chiari […] All’interno essa è, invece, il blocco di abitazioni, tenuto insieme agli angoli da immagini murali della Madonna, quasi fossero mollette di ferro […] di solito la chiesa napoletana non fa sfoggio si sé su una piazza di gran traffico, visibile da lontano […] Essa sta nascosta, incassata; alte cupole si possono vedere spesso solo da pochi posti e anche allora non è facile trovarle; è impossibile distinguere la massa della chiesa dagli altri edifici profani che la circondano […] In questi vicoli quasi non si riconosce dove si deve ancora finire il lavoro e dove è già iniziato il deperimento, poiché niente viene portato a termine o finito».
Benjamin ha focalizzato un carattere saliente della città, intesa come unità di uomini e pietre, dove nessuna forma è pensata per sempre, dove s’esalta la passione dell’improvvisazione e la vita si svolge come su una scena teatrale volta ad esaltare la più misera delle esistenze.
Perché una città non è soltanto strade, palazzi, architetture e monumenti, folla e traffico, rumori e paure. Una città è anche un corpo vivente: ha una pelle, un odore, una capacità di digerire e di nutrirsi. De Simone nel suo bellissimo libro Il Segno di Virgilio, ce la presenta così: «…abbiamo la zona ad oriente di Napoli, detta “Caponapoli”, dove era anche la “testa di Partenope” (la capo de Napoli) e dove le zone di quel versante sono dette “Capodichino” e “Capodimonte”. Il centro della Città (Piazza Nilo) è detto tradizionalmente il “Corpo di Napoli” . A occidente, infine, c’è “Piedigrotta” o, come si diceva anticamente, “pede rotta”: “il piede della grotta”, In questo senso, tutta una parte del golfo prende l’aspetto di un corpo femminile…»
L’architetto Francesco Venezia nella sua intervista a Claudio Velardi (pubblicata nel volume La città porosa) riafferma questo concetto paragonando Napoli ad un grandissimo corpo in costante rapporto «fisico» con i suoi abitanti. Curare il cuore e corpo di una città come Napoli richiede una manutenzione programmata. La città, come sostiene Venezia, meriterebbe di essere meglio salvaguardata non con violenti interventi urbanistici (come l’orrendo moderno Centro Direzionale) o l’opera ciclopica della Linea 6 della metropolitana con stazioni faraoniche a decine di metri di profondità che sta provocando danni forse irreparabili alla stabilità ambientale dell’intera linea di costa ma rispettando con un meticoloso lavoro di restauro la «volontà di forma» e dunque il significato della città, così come si è impresso nell’animo dei suoi abitanti.
Occorre reinventare un’immagine della città che ci aiuti ad immaginare meglio il suo futuro attraverso l’esaltazione delle sue opportunità.E’ a questo carattere della città con il suo patrimonio culturale che i napoletani debbono richiamarsi, è su questo che devono fondare le proprie speranze.
Colori
Per vedere i mille colori di questa città basta entrare nel sottobosco del suo centro storico fatto di vicoli, di bassi e di densità, tra quella folla fatta di persone che stanno una addosso all’altra: il sottoproletariato marginale, le classi popolari, il popolino.
«Io cercavo invece qualcosa che fosse Napoli, il Vesuvio e il contro Vesuvio, il mistero e l’odio per il mistero, i sussulti di un figlio di queste strade, di un fedele di queste strade, che fu, o cessò di essere soffocato, e tornò ad essere soffocato». Nessuno meglio di Anna Maria Ortese è riuscito a cogliere la bellezza di questa città incompiuta che negli anni Cinquanta si rialzava dalla devastazione della guerra. Fu un legame controverso quello della Ortese per la sua Napoli raccontata attraverso le novelle in Il mare non bagna Napoli che gli produsse l’ingiusto giudizio di anti-napoletanità. Napoli è stata per secoli la sospensione tra questi estremi – caos e arte, povertà e bellezza – dove l’uno non ha mai predominato o avuto il sopravvento sull’altro.
Comunque oggi, per fortuna, le strade di Napoli non sono più quelle della Ortese e neanche delle macchine e degli ingorghi. I Sindaci sono impegnati a liberare le piazze e le strade: aveva cominciato Bassolino con piazza Plebiscito, continua oggi De Magistris con il lungomare della Caracciolo. Solo che prima ancora di liberarle bisognerebbe programmare, immaginare, progettare, sapere cosa farci. Perché altrimenti nel momento in cui si liberano vengono invase da quell’esplosione di vitalità sconcertante che è propria dei non luoghi di tutto il mondo.
Paure
Napoli, le sue patologie e le sue potenzialità. In questi anni sembra che Napoli abbia avuto solo due valori su cui puntare, la camorra e l’immondizia. Mentre esiste una maggioranza anonima e sconosciuta che “si fatica la vita” che “si arrangia” all’insegna della sopravvivenza e di cui nessuno si occupa mai perché non sono un richiamo.
Il pericolo è che Napoli si ripieghi sempre su se stessa, sulle stesse parole simbolo: pizza, babà, mandolino, sole, Vesuvio e bassi.
Uno studioso napoletano come Stefano De Matteis nel suo recente saggio Napoli in scena. Antropologia della città del teatro afferma che «Napoli continua ad essere la città delle esagerazioni: letterarie come Gomorra, artistiche come Eduardo, politiche di De Magistris, neomelodiche come Gigi D’Alessio, criminali come i Casalesi, comiche come Totò». Come si fa a non dargli ragione?
Bibliografia
Walter Benjamin, Enrico Ganni (a cura di), Immagini di città, traduzione di Giorgio Backhaus, Marisa Bertolini, Gianni Carchia, Enrico Ganni e Hellmut Riediger, prefazione di Claudio Magris, con un scritto di Peter Szondi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2007.
A cura di C. Velardi, La città porosa. Conversazioni su Napoli, Cronopio, Napoli, 1992
Roberto De Simone, Il segno di Virgilio, Mario Raffone editore, Napoli, 1982.
Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Edizioni Adelphi, Milano, 1994.
Stefano De Matteis, Napoli in scena, Donzelli Editore, Roma, 2012