Dalla ribalta al successo
Né è il caso di parlare di fortuna, perché a teatro non esiste,
o, se esiste, non dura sempre come è durata e dura la mia.
Il pubblico che paga non va dove si annoia.

Eduardo Scarpetta, il più grande innovatore del teatro napoletano, nacque da una famiglia della media borghesia napoletana il 13 marzo del 1854 nel popolare quartiere di Toledo. Il padre lo condusse precocemente al teatro facendogli conoscere anche molti attori. La grave malattia e la morte del genitore nel 1868 obbligarono il ragazzo a lasciare gli studi e a cercare lavoro: che trovò naturalmente sul palcoscenico, all’età di soli quattordici anni, interpretando parti di «servitorello». Cominciò così la sua carriera teatrale, passò poi da una compagnia all’altra finché nel ‘70 ottenne un grosso successo personale nella farsa Feliciello mariuolo de na pizza, interpretando il personaggio che doveva restare legato alla sua fortuna in teatro: Felice Sciosciammocca, vera e propria maschera del teatro napoletano, con abituccio a quadretti, tubino, scarpette da ballo.
Sulla scia di questo successo venne ingaggiato al San Carlino, accanto a Antonio Petito, celebre Pulcinella. Petito scrisse testi per Scarpetta e curò anche la messinscena di alcune commedie farsesche che questi cominciava a scrivere, in dialetto napoletano, ma spesso con chiari riferimenti a temi goldoniani. Dopo la morte di Antonio Petito, Scarpetta lasciò per breve periodo il San Carlino, per ritornarvi nel 1878 con una commedia che ebbe molto successo: Don Felice maestro di calligrafia.
Il 16 marzo del 1876 sposa Rosa De Filippo (da una relazione extraconiugale con Luisa De Filippo, nipote di Rosa, nascono i famosi Titina, Eduardo e Peppino De Filippo). Il successo gli sorride da subito, calca le scene sui teatri più prestigiosi: dal Partenope, al San Carlino, dal Fiorentini, al teatro del Fondo.
Scritturato per una tournée in Italia settentrionale, raccolse consensi e guadagni che gli consentirono, tornato a Napoli, di rinnovare il San Carlino con un repertorio che aboliva la recitazione a soggetto e le maschere, con una compagnia tutta nuova e bene addestrata, con allestimenti puntigliosi degni del repertorio in lingua già collaudato. Scarpetta, dotato di un fiuto teatrale sensibilissimo, capì che per attuare la riforma del teatro popolare napoletano, fondato sul secolare mestiere degli attori, occorreva aprire i confini di questo teatro, cambiare lo scenario e mutare i riferimenti. Ebbe chiara la visione della disgregazione di un teatro dove «l’antico repertorio comico popolare non aveva più alcuna attrattiva pel pubblico» il cui gusto «era interamente mutato; e nessuno se ne avvedeva», e dove «gli attori andavano randagi di teatro in teatro rassegnandosi a fare i mimi, i cantanti, i ballerini, un po’ di tutto per campare la vita» .
«Intorno ai più valorosi superstiti del San Carlino» scrive Scarpetta nel suo libro di memorie «io volevo raggruppare i giovani, non solamente più valorosi, ma più docili a lasciarsi guidare e dirigere» . Il giovane capocomico napoletano capì che se voleva utilizzare quel passato e renderlo funzionale all’oggi doveva dar vita a una compagnia di superstiti. Mise così a frutto un altro degli insegnamenti della tradizione e si trovò a gestire due operazioni in una: ricostruire la compagnia del San Carlino facendosi erede della tradizione di Petito per trasformarsi successivamente in suo rappresentante unico e innovatore.
A tale scopo nella sua autobiografia scrive: «Volevo stordire il pubblico ad ogni costo; ed ero così vanitoso dell’ opera mia, che non contento di essermi messo in bella mostra sul nuovo sipario […] che rappresentava una gran folla di curiosi che si accalcavano davanti al teatro, mentre io mi affacciavo sorridente al balconcello ch’era sull’entrata – avevo collocato sulla porta d’entrata un gran ritratto ad olio, in costume da Sciosciammocca. […] Figuratevi che folla di curiosi a bocca aperta davanti a quel ritratto! E quanti commenti! Il teatro aveva, infatti, completamente mutato d’aspetto, e sorrideva già con una certa aria festosa aspettando la sera della riapertura» .
Il rinnovamento auspicato da Scarpetta andava però oltre: voleva allineare il teatro napoletano al teatro nazionale almeno per quanto riguardava l’ambiente, la comodità e il gusto. Proprio in questo individuò la strada per raggiungere il pubblico e il «nuovo» gusto senza dover entrare nel merito del repertorio. Erano sufficienti «Le decorazioni, le scene parapettate, il sipario nuovo» che gli «erano costati un occhio» ma dice Scarpetta «io non badavo a spese. Volevo che il palcoscenico del piccolo teatro di piazza Castello fosse in grado di gareggiare per comodità e per eleganza con quelli dei principali teatri di prosa» .
Tra le opere che in questo periodo destarono grandi entusiasmi: La presentazione di una compagnia comica (‘80), Lo scarfalietto (‘81), opera esemplare della nuova comicità scarpettiana, che puntava su originali manipolazioni di pochade e vaudeville francesi.
Scarpetta continuò a mietere successi proprio insistendo su questo repertorio; si ricordano Il romanzo di un farmacista povero (‘82); Li nepute de lo sinneco (‘85). Nu frungillo cecato e Nu turco napolitano (‘88). Rivelatosi anche abile impresario teatrale, Scarpetta scritturò molti dei suoi più temibili rivali e assieme a loro mise in scena il suo capolavoro: Miseria e nobiltà (‘88), cui segui nel 1889 ‘Na santarella, culmine del suo successo con centodieci repliche consecutive a Napoli, e più di cento rappresentazioni in tutta Italia, per non parlare di numerose imitazioni rielaborazioni che suggerì. Figlio di un modesto funzionario del Regno borbonico, mise in scena proprio quel «mezzo ceto», quella «classe» così particolare e difficile da definire per realizzare un teatro adeguato a un pubblico che «voleva ridere» ma vedere attori e non maschere sul palcoscenico, attori ben vestiti che recitassero e non improvvisassero. Una raffigurazione divertita di quella borghesia, che a giudizio di Scarpetta, assai più che non la plebe napoletana, «troppo misera, troppo squallida, troppo cenciosa per poter comparire ai lumi della ribalta e muovere il riso», presentava l’ambiente, le situazioni sceniche e i personaggi, dai quali far sprizzare la comicità. Quella comicità che tuttavia «prorompe così spontanea, così naturale, così vivace ed irresistibile dal contrasto che nasce dall’essere al voler sembrare, e dalle abitudini, dai costumi, dai pettegolezzi e perfino dal linguaggio: uno strano miscuglio di dialetto e d’italiano»

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